La locandina

Data dello spettacolo: 14 Nov 2019

Floria Tosca Kristina Kolar
Mario Cavaradossi Domagoj Dorotić
Barone Scarpia Giorgio Surian
Cesare Angelotti Domagoj Dorotić
Sagrestano Ivan Šimatović
Spoletta Saša Matovina, Sergej Kiselev
Sciarrone Slavko Sekulić
Voce del pastore Vanja Zelčić
   
Direttore Kalle Kuusava
Regia Marin Blažević
Scene Alan Vukelić, Marin Blažević
Costumi Sandra Dekanić
Luci Dalibor Fugošić, Marin Blažević
Maestro del Coro Nicoletta Olivieri
   

Orchestra e coro del Teatro nazionale di Fiume HNK Ivan Zajc
»Tosca experience« - si potrebbe definire così la nuova produzione del Teatro nazionale croato Ivan Zajc di Fiume che non si accontenta di portare in scena un allestimento, ma sceglie piuttosto di offrire al pubblico una sintesi di tre possibili approcci, uno per ogni atto del capolavoro pucciniano.

I grandi classici permettono e, anzi, incoraggiano la sperimentazione che salva i registi dalla referenzialità di troppe versioni ormai scomodamente iconiche. Il regista Marin Blažević parte proprio da una riflessione sulla storia degli allestimenti, proponendo per così dire tre spettacoli in uno. Il primo atto è tradizionale al limite dello stereotipo, con costumi in stile e fondale dipinto. Il secondo ammicca a riferimenti più recenti e alla già sperimentata associazione tra il mondo di Scarpia e l'epoca fascista, ma evita la banalità qualunquista del facile effetto dando un contesto specifico, ovvero la Zagabria del 1941, quella dello Stato indipendente di Croazia guidato dagli Ustascia ultranazionalisti e immaginando un ipotetico incontro del loro leader con la diva Zinka Milanov, ponendo così la provocatoria domanda di come l'uccisione di Ante Pavelić per mano di un’ammiratissima cantante dell'epoca avrebbe potuto modificare il corso della storia. Dalla fantastoria si passa poi nel terzo atto al teatro d'opera del XXI secolo, simbolico, minimalista e universale, così come lo vede Blažević, in sintonia con un nuovo pubblico e nuove sensibilità.

La stimolante destabilizzazione dello spettatore, accompagnata dai molti dettagli che invitano continuamente alla lettura sovratestuale del divenire della vicenda attraverso il tempo, focalizza fortemente l’attenzione sulla drammaturgia dello spettacolo, creando un coinvolgimento che rende i cantanti e l’orchestra protagonisti di un evento globale che esalta la forza narrativa del linguaggio operistico. L’immagine del contesto si assottiglia progressivamente: la rappresentazione realistica di Sant’Andrea della Valle e del corredo di altari, acquasantiere e tavolozze del pittore Cavaradossi cede il passo alla spoglia freddezza in bianco e nero di un Palazzo Farnese trasportato nella Zagabria nazionalista delle pulizie etniche, fino ad arrivare alla dissoluzione di Castel Sant’Angelo in una dimensione metafisica di totale interiorizzazione del dramma a contatto con la morte, nel momento della fucilazione di Cavaradossi e del suicidio di Tosca.

Per permettere al pubblico l’immersione in questa articolata proposta di regia e nel suo preciso meccanismo drammaturgico e scenico sono necessari protagonisti di grande affidabilità musicale e attoriale, garantita in questo caso dal magnetico Scarpia di Giorgio Surian e dalla sontuosa vocalità di Kristina Kolar, con una buona prova di Domagoj Dorotić nel ruolo di Cavaradossi. Convince anche la direzione di Kalle Kuusava (classe 1983 e nuovo direttore artistico dell’Opera di Fiume), che si muove tra i colori voluti (e chiaramente indicati in partitura) da Puccini con una consapevole gestione di densità e trasparenze orchestrali, con qualche tratto di esuberanza in rapporto ai solisti, ma grande musicalità e chiarezza del gesto.
La carrellata storica e concettuale modula efficacemente l’impatto emotivo sul pubblico: il primo atto è ingenuamente confortante, il secondo profondamente tagliente, mentre il terzo si distende, ma per addentrarsi in una dimensione esistenziale e spirituale.
Protagonista inatteso del primo atto è il Sagrestano di Ivan Šimatović, che si emancipa dal ruolo secondario e prende la scena con esuberanza comica, sostenuto dall'opportunità registica di muoversi all'interno delle classiche gag da comiche. La sua esaltazione di quello che anche nelle intenzioni pucciniane è l'unico personaggio semicomico dell'opera, tende a sovrastare le prime scene dei protagonisti e dell'Angelotti, ben descritto vocalmente da Luka Ortar.
Il Cavaradossi di Dorotić dimostra fin dall’inizio di avere le caratteristiche per affrontare il personaggio con una vocalità non vistosa (soprattutto in rapporto alla protagonista femminile), ma sicura, forte di una grana raffinata della voce e una bella presenza scenica. Il suo approccio risulta poco espressivo tra gli stereotipi volutamente datati del primo atto e conosce i momenti di maggiore slancio nella foga politica del secondo atto.
La Kolar dipinge una Tosca amorosa, poco incline alle isterie del primo atto, che la cantante preferisce riportare alla dolcezza di una donna fondamentalmente insicura. Non è invece incerta la sua voce: potente, omogenea, condotta con padronanza dei fiati, sicurezza e morbidezza del fraseggio. La naturale intensità della voce accresce la forza drammatica dell’interpretazione nel secondo atto, dove una Tosca particolarmente maltrattata dalla ruvida prepotenza del gerarca mantiene altissima la tensione in tutte le modulazioni della paura, fino a un Vissi d’arte di toccante dignità, nel quale il rivolgersi al Signore si accompagna al tentativo di coprire lo strappo del vestito (copia esatta del costume che Zinka Milanov indossò al Metropolitan quando interpretò Tosca).
Riscuote meritate ovazioni lo Scarpia descritto da Giorgio Surian, già ammirato nella complessa perversione di Jago e che in questo caso accoglie con studiata freddezza anche la dissolutezza della natura di chi rappresenta per professione l’Ordine e la Morale e la cui ambiguità viene magistralmente rappresentata nelle impressionanti sovrapposizioni della fine dell’atto primo, con il Te Deum che si intreccia allo svelamento delle sadiche intenzioni nei confronti di Tosca. Ed è proprio la sottolineatura del sadismo del personaggio, nel radicale contrasto tra le temperature opposte di una donna umanamente scossa e un lucido esecutore di piani efferati, a rendere magistrale l’intera costruzione del secondo atto (cinematografica, quanto lo sono libretto e partitura), fatta di ombre e luci bianche, fredde, tagliate di netto da riflessi rossi come le fiamme che fin dal primo atto divorano Scarpia. La regia richiede crudezza e Surian risponde con esperienza e personalità, sfoggiando la propria caratteristica peculiare, ovvero la capacità di utilizzare la voce cantata non per indulgere al lirismo di una vocalità spiegata, ma per essere attore che canta, con una recitazione scolpita nella chiarezza di un’articolazione granitica, perfettamente comprensibile anche quando ringhiata tra i denti, e impressionante quando scandisce come una sentenza la condanna di Tosca, in forma di inno blasfemo (Va, Tosca). Il suo sangue è nero quando viene pugnalato, come nera è l’ambientazione con le sue associazioni, e la sua uscita di scena è quella di un demone che fino all’ultimo respiro trova la forza di un ultimo slancio verso la preda. La regia sfronda da ogni decorazione, permettendo di apprezzare la raffinatezza di alcuni dettagli, a volte anche in contrappunto con il libretto, come quando Scarpia, con sapienza investigativa e dissolutezza congenita riconosce dal profumo il ventaglio della marchesa Attavanti, prima di pronunciare la soluzione evidente agli altri: la presenza dello stemma.
È efficace e adeguata la proposta di introdurre il pubblico alla dimensione interiorizzata dell’allestimento del terzo atto a sipario chiuso, con l’intermezzo sinfonico e il canto del pastore chiusi tra golfo mistico e sala, per aprirsi poi alla prigione dell’anima, una sedia sul palco vuoto e fumoso, dove non c’è spazio per guardie e carceriere, né per Sciarrone e Spoletta (il primo interpretato da Slavko Sekulić, il secondo alternato nei diversi atti da Saša Matovina e Sergej Kiselev), che diventano voci fuori campo.
Cavaradossi e Tosca, soli nel loro comune destino di condannati, affrontano con felice facilità tecnica e sensibilità i celebri passi dell’ultimo atto. In questo non-luogo della coscienza lui ha il vestito lacero e insanguinato della prigionia, lei porta le indelebili macchie di sangue di un delitto che ormai segna senza possibilità di cancellazione la sua esistenza. Lo dicono Giacosa e Puccini: le sue ultime parole sono per Scarpia e nella salita dei gradini sull’abisso, più che la fierezza di non cadere nelle mani dei carcerieri sembra esserci il tentativo di espiazione di una donna che prima non fece “mai male ad anima viva”. Eppure nel suo lento sparire la regia vuole salvarla alla sconfitta e al trionfo postumo di Scarpia: a metà salita si volta verso il pubblico e rimane fissa nella posa fiera della diva. Perché lei è La Tosca.

La recensione si riferisce alla serta del 12 novembre 2019.

Rossana Paliaga

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